Quarantasette anni fa il medico mi chiamò nel suo studio, mi fece sedere sulla poltrona di pelle che mi fa sudare il culo e disse: “Poli, non riesco ancora a capire a fondo tutta la faccenda, ma l’unica spiegazione è che tu sia allergico alle ragazze.” Pessimo umorista, pessima battuta, pensai. Invece era vero. C’era qualche sostanza nelle ragazze, forse legata agli ormoni, che mi provocava una forte reazione allergica. Era per questo che da mesi mi gonfiavo tutto, faticavo a respirare e avevo quasi rischiato di morire. “Tutto sommato sei fortunato” disse. “C’è gente che è allergica all’acqua. A te invece basta stare ad almeno un metro di distanza da qualsiasi ragazza.”
Il laboratorio continuò le ricerche, volevano offrirmi una qualità della vita migliore. Dissero che trovando la causa precisa si poteva creare un kit per testare le ragazze. Ve lo immaginate?
“Ciao, io sono Poli. Tu?”
“Benedetta.”
“Ehi, bel nome. Che fai nella vita, Benedetta?”
“Aiuto i poveri ad aprire le scatolette, perché sono troppo deboli per farlo da soli.”
“Capisco. Posso farti un tampone vaginale?”
Nah, non avrebbe funzionato.
Chiesi al medico come mai non ero allergico a Carlita, una messicana che faceva le pulizie a casa mia. “Non lo so, sposala” rispose. Scoppiai a ridere e gli dissi che non potevo sposare Carlita. Aveva una quindicina di anni più di me, venti chili di troppo e un settanta per cento di bellezza in meno. Portava i capelli così corti che sembrava calva, non le mancavano molti denti ma se ne intuivano solo due e la sua tariffa oraria era davvero troppo alta.
Passarono due anni. Carlita era una brava fidanzata ma continuava a non piacermi. A tratti la trovavo repellente e con lei non si gonfiava proprio niente. Quando passeggiavamo insieme nemmeno la ascoltavo, preferivo fantasticare sulle passanti. Immaginavo di baciarle. Un giorno Carlita mi chiese se l’amavo. Risposi che per me non poteva esserci nessuna all’infuori di lei.
A partire dal quarto anno provai a tradirla. Provai a tradirla un sacco. Provai a tradirla così tanto che quando scrivevo a delle sconosciute e mia moglie Carlita entrava nella stanza mi sentivo in colpa nei confronti delle sconosciute. Arrivai a imbottirmi di antistaminici e uscire di nascosto per incontrarne una. Le medicine mi fecero addormentare nel bar mentre la aspettavo e al risveglio trovai un bigliettino sulla fronte: “Avrei potuto svegliare te, ma non la bava sul tavolino”. Quando tornai a casa Carlita mi chiese se l’amavo ancora. Le dissi che per me non era cambiato niente, che era come il primo giorno.
E arrivò una bambina, una femminuccia. Arrivò non significa che bussò alla porta: era figlia mia. All’inizio avevo insistito per la fecondazione artificiale, poi consultando il tariffario degli psicoterapeuti locali mi ero accorto che fare sesso costava meno. Era anche facile: chiudevo gli occhi e immaginavo di farmi le mie amiche universitarie. Tutte, dalla prima all’ultima. Quando finii le universitarie belle passai alle normali, poi alle bruttine. Quando finii le bruttine passai ai maschi effemminati, poi agli alpha, poi agli sfigati. Arrivato al pappagallo della vicina decisi di aprire gli occhi e guardare Carlita. Sapete cosa? Non era affatto male a letto. Si muoveva nel modo giusto, aveva perso qualche chilo e iniziava a esserci un po’ di intesa. Durante un amplesso mi chiese se l’amavo. Spinsi un po’ più forte e mi voltai dall’altra parte per dormire.
Il giorno in cui Daria nacque consumai le suole girando in tondo nella sala d’aspetto: e se fossi stato allergico anche a lei? Mi conoscevo, sarei morto pur di abbracciare mia figlia. Poteva essere l’inizio di un incubo. Appena la estrassero urlarono: “Poli, entra, è nata! È nata tua figlia!” Era sporca come una larva aliena ma la trovai subito splendida, una polpetta di carne come nessun’altra. Quella sera ringraziai Dio centinaia di volte per avermi imposto Carlita, che mi aveva estorto gli spermatozoi giusti al momento giusto. Riuscivo a tenere Daria tra le braccia senza reazioni strane. Era fantastico, non volevo più lasciarla. Me la strapparono dalle mani solo quando, preso dall’emozione, tentai di allattarla.
Aveva quattordici mesi. Accarezzandole la testa mi accorsi che qualcosa non andava: mi prudevano le mani. Corsi a contare i miei risparmi e recuperai il foglietto col numero dei più importanti allergologi del Paese. Telefonai al primo e gli dissi che volevo solo continuare a tenere in braccio mia figlia, solo quello. Avrei ingerito tutto il cortisone che voleva, avrei pagato qualsiasi parcella. L’esperto ascoltò paziente e poi disse: “Non è che sono i capelli?”
Bastarono delle cuffiette trasparenti. Non avrei potuto chiederlo a una ragazza per strada, ma potevo chiederlo a Daria.
Non so come ci sono riuscito, eppure sono arrivato a settantasette anni. Non è stato facile. I giornali di mezzo mondo hanno parlato di me: “L’uomo allergico alle donne, tranne una”. A Carlita piacevano un sacco quei titoli, la facevano sentire importante. “La nostra è stata davvero una storia speciale”, diceva. Lo ripete ancora adesso, che ha novantadue anni e sta morendo. Proprio ieri mentre la lavavo con un panno umido mi ha chiesto se l’amo ancora. Le ho detto sì, che l’ho sempre amata e l’amerò per sempre. Che se anche non avessi avuto questa allergia avrei scelto lei. Che la vita mi ha dato tutto quello che desideravo. Non è vero, lo so, ma è comunque meno falso della verità.