“Irene, quello che le mostrerò deve restare confidenziale, per il suo bene.” Una ragnatela di capillari emerse dalla pelle sottile delle sue tempie. Avevo accettato di incontrare quell’uomo su una panchina senza rendermi conto che all’alba il parco sarebbe stato deserto. Mi piegai per sfilare alcune foglie secche dai tacchi. “Lei è uno psicologo, un collega di mia madre, vero?” dissi. “Non l’ho vista al suo funerale.”
“Non l’ho mai conosciuta, ma adesso occupo il suo vecchio studio” rispose lui. “Irene, non posso dedicarle molto tempo. Legga questo, la prego.” Prese dalla sua borsa un quaderno, lo aprì in un punto preciso e me lo passò. Era la scrittura di mia madre.
Devo dimagrire, Armando, per purificare il mio corpo e anche perché peso centosettanta chili. Mia figlia si vergogna di me perché sono grassa e quando vado a prenderla da scuola arrossisce. È per questo che ogni giorno entro nella sua classe, mi presento ad alta voce e chiedo se posso riportarla a casa. Finite le elementari il disagio maturerà e diventerà senso di colpa. Rimarranno sepolti in lei repulsione e rabbia, ma non potrà ignorare i miei bisogni. Non la perderò mai, Armando. Preferisco una figlia infelice piuttosto che nessuna figlia.
“Perché scriveva tutto questo a mio zio?” dissi.
“Non esiste alcuno zio” rispose lui. “Armando è il nome che aveva dato al suo diario segreto; Armando è il quaderno che stringe tra le mani. L’ho trovato nel mio studio, era sotto alcuni listelli del parquet.”
“Un diario?” dissi. Finsi di sorridere. ”No, guardi, lei aveva un fratello di nome Armando.”
“Già. E lei Irene ha mai conosciuto questo fratello?”
“No, ma…”
“L’ha mai sentito al telefono o visto in fotografia?”
“No, so che avevano litigato quando ero piccola.” Mi sforzai di ricordare. “Ma ho un numero di telefono per le emergenze!” dissi.
“Lo chiami, la prego” fece l’uomo.
“Adesso?”
“Sì, adesso.”
Presi il cellulare dalla borsa, cercai il numero e col pollice tremante lanciai la chiamata. Qualcuno rispose, riattaccai.
“Allora?” disse l’uomo.
“È il numero di un bar” risposi.
Iniziai ad agitarmi, sentii il desiderio di scappare. Lo psicologo appoggiò una mano sulla mia spalla e disse: “D’accordo, Irene, cerchi di mantenere la lucidità.” Voltò alcune pagine sul quaderno. “Adesso legga questo” disse.
Vorrei seminare in lei qualche falso ricordo per educarla più agevolmente. Pensavo di convincerla che suo padre la molestava e la chiudeva in un cassetto per punirla, ma prima dovrò perfezionare la tecnica con qualche ricordo minore. Da tre settimane le faccio complimenti ambigui perché pensi di essere leggermente deforme. A quest’età mi basta insinuare un dubbio e nello specchio vedrà quello che le ho suggerito di vedere. Riesco già a decidere quale cibo le piace e quale no, cosa le va di fare nel tempo libero e come ribellarsi all’autorità genitoriale (faccio in modo che si concentri sui capelli, così da evitare tatuaggi e comportamenti drastici). Non ne sono ancora sicura, ma credo di poter generare in lei la convizione così forte di avere un’allergia da poterne attivare i sintomi in presenza della sostanza che ho scelto. La prossima settimana scriverò i risultati delle analisi del sangue.
I miei studi suggeriscono che sarà sufficiente manipolare i suoi primi quindici anni per influenzare il corso di tutta la vita. Continuerà a comportarsi secondo il mio copione anche quando sarò morta. Ti confesso che è un lavoro estenuante, ma l’educazione di mia figlia viene prima di qualsiasi altra cosa.
I polmoni diventarono pesanti, sentii l’uomo parlare: “È stata vittima di un esperimento, Irene. Sua madre aveva perso la ragione e nessuno è riuscito a capirlo. Ha usato le sue conoscenze in campo psicologico per ridefinire, modellare, condizionare – lo chiami come vuole – ogni aspetto della sua vita. Lei non è quello che pensa di essere, e non ha il passato che crede di avere.”
Alzai la testa e dissi: “Ma io mi sento bene, sono felice.”
“Che lavoro fa, Irene?”
“L’infermiera.”
Sfogliò alcune pagine del diario, ancora serrato nelle mie mani. “Legga la data e la parte evidenziata” disse.
16 aprile 1985:
Farà l’infermiera.
“Ha qualcuno?” disse. “Un fidanzato, un marito.”
“No, nessuno” risposi.
Tirò a sé con delicatezza il quaderno, cercò un’altra pagina e lasciò la presa.
2 settembre 1987:
Ho deciso che sarà single. Non farà sesso prima del matrimonio e, ovviamente, guarderà con diffidenza a ogni relazione stabile.
“Devo chiederglielo, Irene: lei è vergine?”
Esitai, poi dissi: “Non ho mai avuto rapporti sessuali di alcun tipo.”
Sfogliai quasi ipnotizzata il diario e mi fermai su una frase sottolineata.
19 febbraio 1982:
Voglio che detesti gli spinaci e che impazzisca per le patate.
Le dita diventarono deboli, il quaderno mi cadde dalle mani. L’uomo lo raccolse subito e diede dei colpetti per pulirlo. “Tenga,” disse, “lo legga.” Provai a farfugliare qualcosa ma lui mi interruppe: “Lei è fortunata, Irene. Sta bene, è molto bella, ancora giovane. Ha solo bisogno di conoscere la verità.”
Afferrai il diario, mi alzai di scatto e mi allontanai dalla panchina più in fretta che potevo.
Da lontano l’uomo urlò: “Forse ho rovinato la sua vita salvandola, oppure l’ho salvata rovinandola: sarà soltanto lei a deciderlo!”
Sulla via del ritorno mi fermai a comprare una porzione di spinaci da una tavola calda. Appena rientrata a casa, prima ancora di togliermi il cappotto, sfilai una forchetta dal cassetto e li assaggiai. Non riuscivo a capire se mi piacessero o meno.
Chiesi allo specchio del bagno se volevo vivere ancora e, se volevo vivere, come potevo farlo. Fissai con attenzione la curva del mio naso. Poi mi tolsi i vestiti e iniziai a contare a bassa voce le piastrelle, come facevo da piccola quando avevo paura.
Trascorsi tutta la notte a leggere il diario e capii di non aver preso una sola decisione importante in tutta la vita. Buona parte del mio passato era falso, i miei ricordi erano pieni di invenzioni, tutte le emozioni erano state pilotate e l’amore stesso che provavo per mia madre, l’unico sentimento forte che pensavo di possedere, non era che il risultato di un esperimento. Guardai la sua foto sul comodino. Avevo ventisette anni e non ero mai esistita.
Cosa succede nei capitoli successivi
La ragazza scopre che l’unico modo per andare avanti è spogliarsi della sua identità e di tutte le certezze, a partire dalle più piccole. Le piacciono davvero i suoi vestiti? Il caffè? I suoi amici? È eterosessuale? Crede in Dio? Si ritrova costretta a tornare bambina e guardare il mondo per la prima volta, un’altra volta.
Lascia il lavoro, cambia casa, e in questa casa invita un ragazzo. I sensi si affilano, il tempo sembra dilatarsi. Prova il suo primo orgasmo.
Dopo qualche anno riceve una telefonata: “Salve, sono l’avvocato Neri, esecutore testamentario di Armando Piras. Mi dispiace che venga a saperlo così, ma suo zio è morto.”
La ragazza, sotto shock, va al funerale e scopre che non solo Armando esisteva davvero ma che era l’uomo incontrato sulla panchina.
Il giorno dopo l’avvocato le consegna una scatola accompagnata da una lettera.
Cara Irene, a questo punto lo saprai già: sono tuo zio. Ho scritto io il diario che continui a rileggere da dieci anni. Mi sono basato su quello che tua madre diceva di te e su ottanta registrazioni audio delle sedute di psicoterapia che hai iniziato a ventidue anni. Il vero esperimento è stato il mio ed è iniziato quella mattina in autunno, sulla panchina.
In questa scatola troverai due documenti:
Il primo è un manoscritto, contiene le mie osservazioni scientifiche sull’esperimento. Ti ho guardata da lontano, ho registrato la tua metamorfosi, ho raccolto dati su come i dubbi sulla tua identità ti abbiano costretta a rinascere, pur con immenso dolore. Se un giorno riuscirai a perdonarmi, forse riuscirai anche a completarlo con la tua versione. È un buon lavoro ma ha dei limiti. Ci sono fatti che solo tu puoi conoscere, sensazioni che solo tu puoi descrivere. Puoi farne un saggio o un romanzo, non importa. Dona la tua storia al mondo, così che questa sofferenza non sia avvenuta invano.
Il secondo documento ti stupirà, Irene, ed è il regalo più grande che io possa farti. È il vero diario di tua madre. Sapevo dove lo teneva, è da lì che ho copiato la sua calligrafia e preso molte delle informazioni. Scoprirai che era una donna di straordinaria dolcezza, piena di speranze per sua figlia, alla quale non ha mentito una sola volta. Se l’hai odiata con tanta violenza è perché non potevi fare a meno di amarla; adesso sai il perché.
Non ci sono scuse per quello che ti ho fatto, per questo non mi dilungherò oltre. Ma ricorda sempre, Irene: forse ho rovinato la tua vita salvandola, forse l’ho salvata rovinandola. Sarai soltanto tu a deciderlo.