Achille aveva un sacco di qualità nascoste, così nascoste che nemmeno lui riuscì mai a trovarle. Aveva la pelle spenta, gli occhi asciutti, ed era vivo solo perché tre dei suoi difetti genetici si compensavano a vicenda, mantenendo in equilibrio un corpo sempre pronto a decomporsi. Persino il suo cuore sembrava spingere il sangue solo perché non aveva niente di meglio da fare.
Faceva sogni così realistici che alcune notti sognava di essere un ragazzo fidanzato che sognava di essere single. Era consapevole di come appariva dall’esterno – anzi, di com’era -, per questo non cercava mai l’amore: per lui anche solo l’essere accettato rappresentava un regalo straordinario e sapeva che se mai una donna lo avesse tollerato se ne sarebbe innamorato così follemente che avrebbe desiderato per lei un futuro migliore di quello che avrebbe potuto darle.
Achille provava un dolore leggerissimo, continuo. Il dolore fantasma di una foglia che ti cade sul piede o di quando la persona a cui sorridi sbaglia il tuo nome.
Ogni sera portava sul divano il telefono fisso e aspettava le chiamate di telemarketing. Rispondeva a tutte le domande: “Che operatore telefonico ha adesso?” “Le piacerebbe svegliarsi al mattino con l’odore del caffè appena fatto?” “Ha figli?” Li faceva ridere con battute sempre uguali.
E poi arrivò lei, Darla. Chiamava ogni giorno per convincerlo a cambiare contratto di luce e gas e quando entrambi sentirono nella cornetta la sirena di un’autoambulanza capirono di abitare nella stessa palazzina. Darla aveva la pelle spenta, gli occhi asciutti, capelli tristi. Vent’anni prima aveva scritto sui margini del libro di scienze “LA VITA NON È IMPORTANTE, MA È L’UNICA COSA CHE ABBIAMO”. L’ultima volta che aveva fatto ridere qualcuno era stato spiegando come risolvere in una sola mossa il problema dell’obesità in America e quello della fame in Africa. Non profumava di niente.
Achille si accorse subito che il filo spinato di Darla era rotto e poteva averla anche subito, ma quando una sera lei offrì le labbra ruvide le disse: “Non accontentarti di me.” Darla capì che in realtà le aveva appena detto di non accontentarsi di se stessa e si guardò le scarpe. Allora insieme provarono un’infinita vergogna: per i sogni troppo realistici, per il libro di scienze, per quei capelli così tristi, per le risate del telemarketing, per il dolore leggerissimo e continuo; e per un attimo, un lunghissimo attimo, mentre Darla si portava le mani al volto e la sera diventava più scura, fu come non essere mai nati.