La seguivo con lo sguardo ogni volta che attraversava una stanza; dopo sette anni insieme la veneravo ancora come il primo giorno. Tenevo a lei al punto che per poco non avevo pianto il giorno prima, quando sbucciando una mela si era procurata un taglio sulla mano.
Quella mattina si avvicinò per baciarmi, ma la fermai.
“Checciai?” le chiesi.
Mi sorrise smarrita e pensò dai, lasciamo perdere. Le sorrisi anch’io, volevo che rispondesse.
“Mi ripugni” disse. “Mi ripugni fin dal primo giorno. Non passa minuto che io non preghi di essere altrove, ogni respiro accanto al tuo corpo è un’iniezione di veleno.” Alzò il mento, le narici si dilatarono per un secondo. “Tuo padre mi paga da sette anni perché io stia con te” disse. “Ecco perché non siamo mai andati a trovarlo: mi sentirei in imbarazzo.”
Mi scostai il ciuffo rosso dalla fronte. “Mio padre è morto vent’anni fa” dissi. “Sono io a pagarti ogni mese fingendo di essere lui. Ecco perché non siamo mai andati a trovarlo. Era l’unico modo per averti, perché in fondo non sei altro che una puttana.”
Fece un passo indietro, sembrò riflettere. Poi disse: “Io non sono io: sono mia sorella. Siamo due gemelle, identiche. Ci dividiamo il tempo con te perché nessuna delle due potrebbe sopportarti per una settimana intera ma entrambe vogliamo mantenere lo stile di vita che i tuoi soldi riescono a comprare.”
“Il mio vero nome è Danilo” dissi.
“Il mio Sara” rispose.
La fissai per qualche secondo. Aveva il naso irregolare, gli zigomi bassi, occhi troppo distanti, eppure era perfetta. Non riuscii più a trattenermi e scoppiai in una risata. Lei si mise una mano sugli occhi e disse: “Non voglio più fare questo gioco. Non è più divertente”.
Alzai le spalle, avrei modificato qualsiasi abitudine pur di vederla felice. Le presi una mano per farmi accarezzare il viso e per un attimo mi fermai a guardare la pelle bianca tra le dita. Afferrai l’altra mano e guardai anche quella. Non c’era alcun taglio.
Studiai di nuovo il suo naso irregolare, gli zigomi bassi, gli occhi troppo distanti e umidi e lei tirò di scatto le mani a sé. Poi, molto lentamente, mi scostò il ciuffo dalla fronte, si avvicinò al mio orecchio e sussurrò: “Checciai?”