Al Dr. Philip Antoine, deceduto
ventidue anni dopo l’inizio dell’esperimento.

Come parte di un progetto sociologico più ampio, abbiamo chiesto a un gruppo di trecento persone di non morire. Cinquecento anni dopo le abbiamo intervistate.

Buongiorno, #98. Cosa ti è successo alla mano?
Non sapevo se potevo ammalarmi, così mi sono ammalato. Un’infezione se la stava portando via, hanno dovuto amputarla centoquaranta anni fa.

Hai figli, speranze, emorroidi?
Figli ne ho avuti. Speranze no: ho sentito poco l’urgenza del tempo che passava. Ho aspettato che i miei sogni si realizzassero con calma, ma nel frattempo i miei sogni sono cambiati. Qualche problema con le emorroidi, adesso risolto.

Rimpianti?
Ho perso tutte le persone che amavo. Ogni tre o quattro generazioni si è formata intorno a me una famiglia, che sistematicamente ho visto spegnersi. Dopo cento anni ho imparato a dir loro quanto ero grato della loro presenza. Avrei voluto capirlo prima. La mancanza di legami ti dà la libertà di essere te stesso, ma essere te stesso non serve a niente se non dipendi da nessuno e nessuno dipende da te.
Comunque è passato tanto tempo, adesso non ha più importanza.

Una scoperta dolorosa?
Se nessuno ti odia non sei nessuno. Intorno ai sessant’anni ho iniziato a pensare come pensano le donne, a entrare nella loro testa, prevalentemente dalla bocca. Ai loro compagni questo non è piaciuto. Mi hanno dato un sacco di problemi, ma il punto è che solo in quel momento il mondo si è accorto di me. Ho fatto la differenza.

Cosa è cambiato di più nel tempo?
Dopo i primi duecento anni hai visto talmente tanti cambiamenti nella morale, nella classificazione di bene e male, nelle leggi, nei gusti della gente, che diventa chiaro quanto sia tutto arbitrario. Acquisti una lucidità estraniante. Molte attività comuni cadono in disuso e a guardarle un secolo dopo paiono assurde. Per dirne una, un tempo c’era chi faceva circoncidere i propri figli per ragioni igieniche. La mutilazione come alternativa al sapone. Tanto valeva tagliarli in due all’altezza dell’ombelico, così non avrebbero dovuto pulirsi il c*lo.

Sei religioso?
Ho osservato tutti i sacramenti tranne matrimonio ed estrema unzione, sto ancora decidendo quale fare prima. La religione segue la massa: tenta di sopravvivere distinguendosi tramite una sorta di nettezza morale e finisce per adattarsi con un po’ di ritardo pur di non morire. È una partita a poker: fa la voce grossa per esprimere autorità e quando non funziona implora di essere abbracciata promuovendo i valori che la gente già apprezza.

Cosa hai sopportato meno?
La ciclicità dell’idiozia collettiva. Le persecuzioni, le guerre. Spuntano dibattiti sempre sugli stessi argomenti come se fossero interessanti e nuovi. Molto noioso e anche frustrante. Spieghi a tutti come stanno le cose, cosa accadrà, però nessuno ti ascolta. Citando Borges: «Così è: l’ “attualità incandescente” che ci esaspera o esalta e con frequenza ci schiaccia, non è altro che una riverberazione imperfetta delle vecchie discussioni. Hitler, orrendo per palesi eserciti e segrete spie, è un pleonasmo di Carlyle (1795-1881) e anche di J. G. Fichte (1762-1814); Lenin, una trascrizione di Karl Marx. Di qui che il vero intellettuale rifugga i dibattiti contemporanei: la realtà è sempre anacronistica.»
Imparano solo con l’esperienza, con le ferite. Studiano, ma non capiscono davvero.

Ora che l’esperimento è finito, morirai?
Non lo so, devo ancora decidere.

Non sono bastati cinquecento anni?
L’intervistato si guarda le ginocchia, poi si alza di scatto e corre verso la porta, verso l’uscita del palazzo, verso un phon gigante al polo nord, verso qualcuno che ti abbracci per abbracciarti e non per essere abbracciato, verso un seno pieno di latte, verso un mondo in cui dopo una salita potrebbe esserci qualsiasi cosa, verso una bambina con le rughe.
O forse è solo che non voleva rispondere alla domanda.

Nota 13 del Ministero della Verità
All’inizio dell’esperimento il professor Antoine, per assicurarsi un’eterogeneità sufficiente, ha appeso un cartello con la scritta: “Cerchiamo persone con QI basso.” È nostra opinione che le persone con QI basso non sapessero cosa significasse l’acronimo QI. Se anche qualcuno gliel’avesse spiegato, verosimilmente solo il sottoinsieme dei più spavaldi avrebbe scelto di dichiarare i propri deficit intellettivi. Questa evidente falla nell’impostazione dell’esperimento lo rende privo di valore scientifico, dunque da rifare.